di Vera Negri Zamagni, vice presidente del CEFA

Dalla fine del dicembre scorso lEtiopia si trova nello stato di default per il mancato pagamento di una cedola di 33 milioni di dollari su un’obbligazione da un miliardo, ma forse questa è la punta dell’iceberg.

È il terzo paese africano a finire in default dopo lo Zambia e il Ghana, per un ammontare davvero modesto, ma significativo come segnale della fragilità dei paesi africani. L’innalzamento mondiale dei tassi d’interesse spinge quasi tutti i paesi africani molto indebitati verso il default, come il premio Nobel dell’economia Joseph Stiglitz sta ormai denunciando da molti mesi, suggerendo alle istituzioni internazionali di “take action”. Come è noto, il default di un paese spinge gli investitori internazionali a ritirarsi e dunque sfavorisce gli investimenti, rendendo difficile la transizione che molti paesi in via di sviluppo stanno tentando di attuare verso un sistema economico migliore. Anche se non sarà difficile per l’Etiopia, un paese con 116 milioni di abitanti, arrivare ad un accomodamento con la finanza internazionale, con qualche aiuto proveniente dalla Cina, va detto che questo è solo uno dei problemi che sta affrontando l’Etiopia. 

Le grandi ambizioni del premier Abiy Ahmed sono frustrate dai continui disordini di comunità che non accettano il processo di unificazione del paese voluto da Ahmed. Archiviata la lunga e sanguinosa lotta contro i ribelli del Tigray, ora si sono rivoltati gli abitanti della regione di Amhara e della regione Oromia, causando scontri con l’esercito nazionale, tensioni e un eccesso di spesa militare. In questo contesto l’inflazione si è alzata, provocando un calo delle esportazioni e un deprezzamento del cambio della moneta locale. Per rendere più facili le esportazioni e le importazioni del paese, Abiy da tempo sta cercando di risolvere il problema della chiusura dell’Etiopia nei confronti del Mar Rosso. Si tenga conto che l’Eritrea, una striscia di terra tutta affacciata sul Mar Rosso che conta oggi solo 3,5 milioni di abitanti, dopo la fine della sua storia coloniale venne inglobata nell’Etiopia fino al 1991 e la sua indipendenza causò gravi danni economici all’Etiopia.

Lo scorso ottobre Abiy chiarì ad Eritrea, Somalia, che conta 17 milioni di abitanti, includendo la parte Nord secessionista del Somaliland di 3,5 milioni, e Gibuti di 1,1 milioni di abitanti, che l’Etiopia ha un “diritto” legato alla sua dimensione e alla sua storia ad un affaccio sul Mar Rosso. L’accordo successivo, che è stato rivelato solo pochi giorni fa, è stato fatto con il non riconosciuto stato del Somaliland, e consiste nella concessione per 50 anni di una zona di circa 20 km di costa vicino al porto di Berbera, con scalo sul golfo di Aden e la possibilità di stabilire una base militare. In cambio il governo etiope avrebbe offerto al Somaliland una quota della sua grande compagnia di bandiera, una delle poche grandi imprese funzionanti del paese, e in prospettiva un riconoscimento del Somaliland. Questa mossa è stata pesantemente criticata dal presidente della Somalia e potrà provocare futuri disordini.

Vita dunque pericolosa per l’Etiopia, che ha in campo grossi progetti infrastrutturali e avrebbe bisogno di quella pace interna ed esterna che sembrano difficili da ottenere per portarli a termine. L’Europa dovrebbe capire che l’aiuto politico e finanziario per la stabilizzazione di un paese dell’importanza dell’Etiopia sarebbe cruciale per dare qualche chance di sviluppo sostenibile all’area del Corno d’Africa, chiedendo in cambio maggiore riguardo allo stato di diritto e alle buone relazioni con i paesi confinanti.