Andrea Cresta è responsabile del team di ricerca e sviluppo presso Menù Srl. Con la collaborazione di Menù, nostro partner in Italia, abbiamo formulato la ricetta migliore per una farina fortificata dall’alto valore nutritivo. Una volta arricchita, la farina diventa la base delle pappe iperproteiche, uno dei nostri strumenti per combattere la malnutrizione.

Andrea è partito per Kilolo, in Tanzania, per dare il suo contributo tecnico al progetto, e questa è la storia del suo viaggio.


Vuoi sostenere anche tu il nostro progetto di contrasto alla malnutrizione in Tanzania?

L'inizio del viaggio

Per arrivare a Kilolo ci sono volute 9 ore di aereo, 10 ore di auto in cui abbiamo fatto circa 530 km ed un totale di:

Camion ribaltati:
Camion andati a fuoco:
Camion in panne:
Camion distrutti per frontale con altro camion:
Camion ripresi con argano dal letto del fiume:
Venditori di pomodori quasi investiti con auto e camion:
Frontali rischiati: 10 
Dossi: 55, di cui non segnalati: 55
Dossi in mezzo al nulla: 10
Tanzaniani che attraversano la strada: 5

Tanzaniani che attraversano la strada al buio senza guardare: 5
Clacson suonati: 250 circa per segnalare la qualunque. 
Tutto sommato, un viaggio tranquillo per arrivare nel granaio della Tanzania.

Al nostro arrivo a Iringa, la capitale della regione, ci accoglie Giovanni: un agronomo del CEFA. 

Giovanni lo conosco poco, un pranzo insieme in azienda per riaccendere il progetto, poi a parte qualche video call niente di più. È un omone siciliano con la barba un po’ schivo ed è una persona franca che ti dice le cose come stanno senza grossi giri di parole. Vive da 16 anni in Tanzania dove segue i progetti per il CEFA, l’ong con cui collabora la mia azienda. Giovanni ha cominciato la sua avventura in Africa con il servizio civile – come obiettore di coscienza - 18 anni fa, e come dice lui “partivamo perché credevamo in qualcosa…” e penso che quel qualcosa siano i valori che ancora oggi lo spingono a fare il cooperante.

Tornando a noi, arrivati ad Iringa, dopo il viaggio appena fatto, non era il caso di rimetterci in auto con il buio, anche perché nel villaggio in cui eravamo diretti molto probabilmente non ci sarebbe stata corrente perché la stanno staccando ad aree alterne, non ce n’è abbastanza per tutti. La carenza di elettricità è dovuta al ritardo della stagione delle piogge.

Andiamo a casa di Giovanni. Ci ospiterà lui questa notte. 

Insieme a Giovanni ci sono Matteo e Riccardo, due ragazzi del servizio civile che sono stati assegnati al progetto e che finora hanno portato avanti i test iniziali del semolino. Noi siamo qui per fare l’uji, che di fatto è il semolino. 

Ah, dimenticavo, in questo viaggio siamo io e mia moglie. Lei è un architetto con il vizio dell’avventura e siccome questa missione puzzava di avventura ha deciso di accompagnarmi. Io sono un tecnico alimentare, in realtà sono un arrangione che cerca di conservare il cibo per più tempo possibile e nel miglior modo possibile. In pratica, faccio le conserve. È un mestiere semplice, per me il più bel mestiere del mondo: conservare il cibo significa raccoglierlo nel momento in cui è più abbondante e poterlo letteralmente conservare per quando sarà più scarso. È anche il mestiere più vecchio del mondo ancora prima della ruota, l’uomo ha sempre cercato di conservare il cibo e i nutrienti. Questo ragionamento vale ovunque anche qui a 6 gradi sud, attaccati all’equatore dove le stagioni sono due: quella secca e quella delle piogge.

Seminare e raccogliere

Si semina tra quella delle piccole piogge e quella delle grandi piogge. 

Si raccoglie all’inizio della stagione secca. Il ciclo è relativamente breve. Ma bisogna arrivarci alla prossima raccolta e nel frattempo c’è da conservare il cibo. È molto semplice e questo ha sempre avuto su di me un po’ di fascino e di magia sarà forse colpa della favola della formica e della cicala che mi raccontava mia nonna da piccolo. 

Starete pensando: “cosa ci vuole a conservare un po’ di mais con quel caldo e nel 2023?” Beh girando con Giovanni tra le case e i magazzini della Tanzania rurale ho capito che è più facile a dirsi che a farsi perché gli insetti sono ovunque e il caldo secco si trasforma in un umidino niente male durante le grandi piogge. Per comprendere meglio le difficoltà bisogna premettere che qui la coltivazione non è estensiva e intensiva, come da noi, ma è di sussistenza. La maggior parte delle famiglie possiede un proprio campo e lo coltiva alcuni mesi per sfamarsi tutto l’anno. Tutta la famiglia contribuisce alla coltivazione perché tutti danno una mano. Non stupitevi di vedere in giro i bambini più grandi tornare da scuola con indosso l’uniforme verde rigata e la zappa su una spalla mentre i piccoli la trascinano. Tutti contribuiscono e più figli hai meglio è. 

Torniamo a noi, o meglio, al motivo per cui siamo venuti a Kilolo: qualche anno fa l’azienda per cui lavoro ha partecipato ad un progetto il cui obiettivo primario era fornire assistenza alimentare alle madri e ai figli durante i primi 1000 giorni di vita. In sintesi, si è cercato di creare le condizioni per poter aiutare le famiglie con bambini malnutriti o potenzialmente a rischio. Per poter fare questo, sono state attuate diverse strategie, tra cui: la distribuzione di alcuni kit di supporto alle famiglie per implementare le dotazioni agricole e la formazione di alcuni agricoltori su tecniche specifiche per poter migliorare i raccolti. Gli agronomi del Cefa hanno formato i cosiddetti “Progressive farmers”, con lo scopo di formare alcuni agricoltori che potessero divenire un esempio per gli altri del villaggio; si tratta di una formazione semplice ma efficace in questo contesto in cui manca l’istruzione di base anche a livello agricolo. In questi anni abbiamo collaborato come azienda attraverso l’installazione di due macchine: una per seccare il mais qualora fosse troppo umido e una per sigillare sottovuoto le farine prodotte nel mulino accanto. Il mulino è gestito da Mawaki, una ONG Tanzaniana fondata da un frate scalzo italiano arrivato in Tanzania nel 1985, mentre ad Imperia nascevo io: quanto mi piacciono i giochi con le date!

Il mulino

Il mulino, ad oggi, è gestito da tre tanzaniani che macinano le farine e sono di fatto gli operai della macina: il cuore della nostra parte di progetto. Il loro capo si chiama Marcus: un uomo di media statura con un sorriso sottile ma molto fiero, anche i suoi modi di fare sono molto fieri ed orgogliosi. Marcus conosce come devono essere utilizzate le macchine e gestisce i processi che vengono eseguiti alla macina. Il mulino è tenuto come un gioiello, è tutto abbastanza in ordine, la manutenzione è molto più che accettabile considerando che la meccanica non fa parte delle conoscenze base dei tanzaniani.

Nel laboratorio c’è una termo sigillatrice sotto vuoto che la nostra azienda ha donato al progetto. Ci sono anche un tavolo con due bilance come quelle che abbiamo noi in produzione, un compressore, uno scaffale ed un paio di bancali con appoggiate sopra delle buste alluminate con dentro 10 kg di mais biologico macinato, che sarà l’ingrediente principale del nostro uji. Sugli scaffali ci sono anche: riso, soia tostata e fagioli verdi - le nostre proteine - semi di zucca - i nostri grassi - e la barbabietola secca. 

Questi sono gli ingredienti che Barbara, la nostra cuoca in ricerca e sviluppo, ha dosato per creare un semolino buono e, grazie ai consigli dei medici nutrizionisti che collaborano al progetto, anche bilanciato e adatto ai bambini degli asili della zona. Il tocco finale lo ha dato Fra Paolo: la barbabietola secca e macinata unita agli altri ingredienti conferisce all’uji un colore rosso-rosato che è molto apprezzato nella cultura popolare,  in quanto, ricorda il sangue e si ha la credenza che faccia crescere forti e sani. Presa in mano la ricetta definitiva ci mettiamo all’opera e prepariamo 10 kg di prodotto che andremo a testare il giorno dopo all’asilo di Pomerini, dove si trova la missione di Fra Paolo. Chiara, Matteo e Riccardo macinano, pesano e mescolano gli ingredienti


La merenda

Siamo arrivati all'asilo che era ora della merenda.  Beviamo un bicchiere d’acqua in refettorio e ci prepariamo per il test di assaggio.

Usciti dal refettorio, i ragazzi ci avvertono che di lì a poco saremo assaliti da un’orda di piccoli scolaretti Tanzaniani stanchi di stare seduti in classe. 

In un secondo ci troviamo in una bolgia di bambini dagli occhi grandi, in uniforme, che ti abbracciano, ti chiamano e ti strattonano. Vogliono farsi fare una foto, giocare e salirti in braccio senza fare caso al fatto che tu sia nuovo o sia di famiglia, come Fra Paolo. I bambini sono presi da un “ciao” compulsivo che ripetono fino a quando la maestra non li chiama a rapporto in un lato del cortile. Alla nostra destra, sotto un porticato, ci sono tutte le maestre pronte a suonare i bonghi, i bimbi si dispongono di fronte a loro pronti a danzare. Soltanto una bambina rimane a fianco delle maestre: più in alto rispetto ai suoi compagni che ballano un pochino più in basso: oggi è lei la coreografa dell’asilo, canta e dà il ritmo, tutti la imitano seguendo il suono dei tamburi delle maestre. È un bellissimo modo per farli scaricare in vista della merenda e delle ore di scuola che li aspettano, noi li guardiamo catturati dal ritmo istintivo e coinvolgente che hanno nonostante siano così piccoli. La merenda di oggi è buonissima, ma soprattutto è rossa e molto nutriente. Riccardo la porta alle maestre che stanno scaldando il latte e l’acqua, aggiungono lo zucchero, la nostra farina e il tutto si tinge di rosso. La barbabietola funziona. I bambini in tutto questo, sono seduti su un marciapiede di fronte al braciere delle maestre, sono tutti seduti per classe, anche qui, tutti tranne una. 

La sacerdotessa, scherzo naturalmente, in realtà è sempre la stessa bambina di prima che in questo caso ha il compito di guidare la preghiera di ringraziamento per la merenda mentre tutti gli altri bambini la seguono in coro. Noi, insieme a loro, forse non ringraziamo tanto per la merenda quanto di poter assistere a questo momento. Terminata la preghiera, un gruppo di 2-3 bambini si alza chiamato dalle maestre, saranno i camerieri di oggi; Prendono e sistemano le ciotole che le maestre hanno riempito con l’uji, ognuno ha il suo ruolo: c’è chi prende la ciotola e la appoggia sul tavolo e poi corre a prenderne un’altra, mentre gli addetti ai cucchiai ne distribuiscono uno per scodella. Nessuno si muove o sgarra dal proprio ruolo c’è un rispetto del momento surreale nell’aria. Io, Chiara, Riccardo e Matteo siamo appena dietro alle maestre in attesa di assaggiare anche noi il risultato dei nostri sforzi. Il bambino addetto ai cucchiai si accorge che il colore della sua merenda è diverso dal solito, la guarda incuriosito e non è poi così tanto convinto che sia ok ma le maestre lo rassicurano e lui appoggia il cucchiaio e continua a svolgere il suo compito. Mi scappa un sorriso perché è il più dolce assaggio di un nuovo prodotto a cui io abbia mai assistito dopo 12 anni di conserve e di prodotti innovativi: questo è forse il più semplice e diretto che abbiamo mai creato. E’ un prodotto che non ha nessuna sovrastruttura commerciale o di marketing, è l’essenza del nostro mestiere: conservare cibo buono, nutriente e con un tocco di Menù, perché l’uji rosa non lo fa nessuno. Alla fine, è questo che conta ed è l’essenza di tutto quello che facciamo. 

Le maestre danno il via all’inizio della merenda e, seguendo un ordine a noi sconosciuto, i bambini e le bambine si alzano poco alla volta e vengono a prendere il semolino rosa. Scelgono la loro scodella e si vanno a sedere sotto degli alberi lì accanto. C’è chi si siede da solo, chi in cerchio e chi in fila all’ombra dei Parachici (avocado). E’ stato bello vedere come mangiavano volentieri e c’è da aspettarselo vedendo l’energia con cui ci hanno accolto, tra i  “Ciao Ciao” e i balli io mi sarei mangiato anche la scodella. Assaggiamo l’uji anche noi e dopo, insieme ai ragazzi del servizio civile andiamo a raccogliere i commenti dei nostri attenti consumatori finali.

Riccardo, cerca di insegnare ai bambini a dirci se gli piace dicendo “nzuriiiii” e girando il dito sulla guancia. “Che ridere!” Per loro è la cosa più assurda che un bianco gli abbia mai insegnato. Siamo così vicini e così lontani nelle piccole cose che non sembriamo nemmeno nello stesso posto, ma di fatto il semolino lo mangiavo anche io da piccolo e che nzuri (buono) che era. 

I bimbi hanno finito. Lavano la scodella, il cucchiaio e riportano tutto alle maestre. 

Il frate scalzo

La merenda è finita e noi andiamo a fare due passi con Fra Paolo. Ci vuole mostrare la struttura in cui fornisce sostegno a ragazzi disabili sieropositivi. Queste sono due problematiche importanti e sensibili già in Europa figuratevi in Africa, a Pomerini dove il lavoro principale delle famiglie è il lavoro nei campi, dove serve poter compiere sforzi fisici e di lavoro manuale spesso per poter lavorare. Questa struttura si pone sia come aiuto ai ragazzi che come aiuto alle famiglie. Le difficoltà date dai pochi aiuti forniti dallo stato ce le spiega Fra Paolo mentre facciamo il giro: le risorse che lo stato ha messo a disposizione erano due insegnanti sordomute che avrebbero dovuto gestire una classe con 80 ragazzi disabili. 

Ci viene incontro un ragazzo, è diabetico. Fra Paolo ci racconta che quando è arrivato in struttura era praticamente cieco. Ora sta molto molto meglio e si prende cura delle galline del centro, sono quasi un centinaio. Le galline facevano parte dei kit del grande progetto di cui facciamo parte anche noi, quelle rimaste dopo la distribuzione le ha tenute Fra Paolo perché come dice lui : “bisogna pur far mangiare i ragazzi del centro, ai  frati e le infermiere”. Nel centro c’è anche una falegnameria dove i ragazzi possono imparare a lavorare il legno, un’infermeria che da assistenza oltre al dispensario statale del villaggio. Di base è un dormitorio con uno spazio palestra ad uso dei ragazzi con disabilità e per le loro mamme che qui imparano come aiutarli anche una volta tornati a casa.

Torniamo alla missione, si è fatta ora di pranzo e in Africa vige un detto ci dice Matteo: “se non mangi l’Africa, l’Africa mangia te” 

E infatti i frati hanno optato per la prima, nella missione c’è una piccola cucina con una gigantesca impastatrice e ci sono le signore locali hanno fanno il pane e lo stanno cuocendo in un forno a legna e penso: "qualcuno gli avrà insegnato a farlo? perché è proprio identico al nostro”.

Questo forno lo useremo nel pomeriggio per essiccare e tostare semi di zucca e la soia, questo perché i nutrizionisti partner ci hanno detto che migliora la capacità di quest’ultima di essere assimilata.

Faccio due chiacchiere con Fra Paolo mentre lui, con l’orgoglio della Tribù che lo ha adottato 37 anni fa, ci mostra la meraviglia dell’orto. Tra un pomodoro e una melanzana mi spiega che il cibo c’è, quello che manca è la cultura della nutrizione. Mangiano sempre la stessa cosa. Farina di mais con le stesse verdure e una volta ogni due mesi un pezzo di carne. L’altro problema grande è l’alcol, che chiamarlo tale è tanto, in effetti fermentano di tutto e poi se lo bevono. Spesso è più etanolo che alcol e il risultato è che molti sono quasi ciechi ma la “botta” dura più giorni. Questo fa sì che si dimentichino di dare da mangiare a figli e se gliene danno è sempre quello: mais. Più uno si allontana dai centri rurali più il problema è amplificato e come dice Fra Paolo: “quanto te lo portano è già tardi e il bambino o la bambina sono in malnutrizione acuta”. In questo caso ci sono una serie di prodotti studiati per intervenire nelle varie fasi della malnutrizione. Latte più o meno addizionato quando è acuta, perché i bambini riescono solo a bere. Mentre due tipi di farine quando è più o meno cronica. 

Sentendo questo penserete che i Tanzaniani siano alcolizzati e pigri, ma per fortuna non sono tutti così anzi, è che le cose da queste parti non sono proprio facili. La terra è davvero difficile oltre ai primi trenta centimetri non c’è nutrimento, è acida e i fertilizzanti e i nutrienti vengono dilavati dalle piogge. I trattori quando ci sono, sono “scassati” e non sono capaci di settarli per lavorare al meglio. A volte li vedi arare in seconda con il trattore che impenna in 4 sul muso per non farlo impennare. Quindi la maggior parte dei campi e arata dai buoi e zappata dalle donne e dai figli, o dagli uomini se non hanno un altro lavoro. Giusto non ho ancora raccontato nulla delle donne Tanzaniane anche perché non c’è una distinzione così netta tra i ruoli. La preside dell’istituto di agraria è una donna, la stessa presidentessa della Tanzania è donna. C’è molto rispetto tra i tanzaniani e credo sia il lascito del “socialismo famigliare” del loro primo presidente Nyrere. 

Le donne sono spigliate cordiali e scherzose con noi, sicuramente ci prendono anche in giro, ma non parlando una parola di swahili non ve lo so dire. Fa parte dell’essere in un mondo al negativo dove da piccolo ti raccontano che se non fai il bravo ti viene a prendere l’uomo bianco.

La scuola

Torniamo ai nostri semi di zucca, alla soia e alla nostra amata barbabietola. 

Allora, la zucca e la barbabietola si trovano anche al mercato ma visto che la missione di Mawaki è anche quella di provare a costruire un’economia circolare. Per farvi capire meglio in cosa consiste vi devo raccontare della visita dell’ultimo giorno fatta alla scuola di agricoltura: la Dia.

È un vecchio complesso agricolo fuori Pomerini, dove lo stato si occupava della produzione di sementì per l’agricoltura. In una parte del terreno, questo succede ancora con una società pubblica chiamata ASA gestita da una manager da poco insediata a sostituire il vecchio manager che si vendeva la legna del complesso statale per tenersi i soldi, ve l’ho detto le cose qua non sono facili. 

La scuola oltre agli edifici di insegnamento ha una libreria e diversi laboratori. C’è un locale dove vengono insegnate le basi di veterinaria. L’odore di macello è facilmente percepibile e le lezioni di anatomia corrispondono al giorno della settimana in cui viene data la carne con il pasto principale, sempre a base di farina di mais. Poi c’è un laboratorio di informatica che la preside ci mostra orgogliosa perché ha trovato lei il donatore americano che ha reso possibile il laboratorio, questo permette ai ragazzi della scuola di potere seguire anche dei corsi specifici online. Una specie di didattica a distanza. Attraversiamo il laboratorio di Chimica dove i ragazzi imparano le basi e ad analizzare il terreno. Terminato il giro delle aule didattiche, andiamo a vedere il pollaio dove sono nate i kuku (polli) che poi sono state distribuiti alle famiglie del progetto.

Le persone fanno la differenza

 I ragazzi grazie a vari progetti come il nostro nel tempo hanno la possibilità di imparare a coltivare il proprio cibo e allevare i propri animali. Ci sono capre, maiali, conigli e ovviamente le mucche. L’idea di Fra Paolo per la barbabietola e le zucche è la stessa delle galline: farla coltivare ai ragazzi della Dia e poi usarla lungo la filiera del uji. In questo modo i ragazzi imparerebbero a coltivare anche queste due piante in un’economia circolare.

Ci sediamo a fare il punto dei prossimi passi per la produzione di farine fortificate, bilanciate e circolari. Davanti a noi una tazza di tè e in mano due pallette di pastella fritta a base di farina di Mawaki. Se non state attenti in Tanzania a momenti friggono anche voi. 

Lascio la mia esperienza e quello che posso del mio mestiere ai ragazzi del servizio civile. Loro  insieme a Mawaki e Fra Paolo avranno il compito di realizzare tutti passaggi del flusso produttivo che abbiamo definito insieme. Trasmettendo quello che abbiamo pensato insieme ai lavoratori tanzaniani che lavorano alla macina. Dovranno creare punti di lavaggio ed essiccazione dei semi e dalla barbabietola. I fagioli saranno da lavare e da cernire proprio come facciamo noi in azienda e io gliel’ho insegnato. Gli ho insegnato come vanno lavorate le varie materie prime per poterle macinare senza troppi pericoli. Gli ho insegnato come controllare la sigillatura della busta, gli ho insegnato cosa vuol dire lavorare di prerequisito, anticipare il problema per non trovarselo dopo non sono proprio sicuro che lo faranno, ma mai dire mai. Questa volta sono io ad essere orgoglioso di quello che so fare. Non volevo scrivere tutti questi io gli ho insegnato”, perché nonno mi ha sempre detto che “io io” fa l’asino, tuttavia lo faccio. In questo momento mi rendo conto servono dei soldi per questi progetti, servono i finanziamenti e i donatori sono fondamentali. Ma mi guardo intorno e mi rendo conto che ogni persona sa fare qualcosa e lo può insegnare al prossimo e deve andarne orgoglioso perché la differenza tra fare o non fare, la fanno le persone con il loro sapere. Dall’agronomo al contadino, dalla preside a Marcus dalla macina. Dalla Barbara che ha fatto la prima ricetta a Fra Paolo che ci ha messo la barbabietola. Da Chiara, Riccardo e Matteo che hanno lavorato le materie prime alle maestre che hanno preparato l’uji, ai bambini che se lo sono mangiato come assaggiatori provetti. 

Tutti hanno qualcosa per fare la differenza. Sono così orgoglioso di queste persone da provare una fiducia incondizionata nella loro capacità di fare. 

Le persone fanno la differenza. 

Grazie a tutte le persone che abbiamo incontrato in questo cammino perché hanno fatto e faranno sicuramente la differenza. 

Andrea

Sono così orgoglioso di queste persone da provare una fiducia incondizionata nella loro capacità di fare


Questo progetto è finanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo”.
Nutrendo il futuro: Intervento integrato in agricoltura, salute, nutrizione a supporto dei primi mille giorni di mamme e bambini a Iringa e Njombe – TZ (AID 011900-CEFA-TZA)