Oggi è la Giornata Mondiale contro le Mutilazioni Genitali Femminili. Si stima che 200 milioni di donne e ragazze nel mondo siano state vittime di tale pratica. Si tratta di operazioni che non hanno una ragione medica, e sono spesso eseguite senza anestetico e con attrezzatura non convenzionale. La pratica è una violazione dei diritti umani riconosciuta a livello internazionale, e preoccupanti stime mostrano come altre 68 milioni di donne nel mondo rischiano di subire mutilazioni genitali entro il 2030.

Per rispondere a questa problematica, CEFA è impegnato in Somalia nella promozione dei diritti delle donne e delle ragazze nello stato di Puntland con il progetto FREE, per contribuire all’abbandono di ogni forma di violenza sessuale, con particolare attenzione alle mutilazioni genitali femminili e altre pratiche dannose e pericolose. Per comprendere al meglio la problematica e le risposte che stiamo portando avanti nel paese, abbiamo parlato con Gabriele Covi, cooperante e responsabile del Progetto FREE.

Quali sono le origini di queste pratiche di mutilazione?

Le origini della pratica sono culturali e religiose, ma soprattutto devo dire culturali. I tassi di prevalenza sono molto alti in Somalia, questo perché è molto radicata nei codici etici e culturali del paese. Per capire meglio, dobbiamo distinguere queste mutilazioni in tre categorie, che vanno dalla meno alla più invasiva. La prima comporta l’eliminazione del clitoride, mentre con l’ultima arriviamo all’infibulazione. Quello che si è notato negli ultimi 10 anni a seguito di tutti gli sforzi da parte delle organizzazioni internazionali e dei governi locali, è non un’eliminazione della pratica, ma un passaggio dall’infibulazione alla rimozione del clitoride, il cosiddetto tipo 1. Il tipo 1 non viene neanche chiamato “mutilazione”, anzi viene chiamato “sunna” cercando di riprendere la componente religiosa della pratica. L’infibulazione invece cerca di garantire l’arrivo vergine al matrimonio, deprivando il sesso da ogni aspetto di piacere legandolo unicamente a scopi riproduttivi.

Qual è l’impegno politico ed istituzionale verso l’eliminazione di queste pratiche?

In Somalia, il governo del Puntland è impegnato nel contrasto alle pratiche di mutilazione genitale femminile. Già nel 2014 era stata emanata una policy di zero tolleranza contro tutte le categorie di mutilazione. Dopodiché è stata creata una task force per sensibilizzazione questi temi. Dunque a livello politico c’è un impegno concreto che non si limita alla formalità. Quello che spesso manca però sono le risorse per poter implementare tutte le iniziative. Attualmente il grande tema è stata l’approvazione di un disegno di legge nel giugno 2021, per cui il Puntland ciminalizzerà le pratiche connesse alla mutilazione genitale femminile. Adesso il Ministero della Giustizia sta cercando di convincere i parlamentari ad approvarlo, facendo anche un grande lavoro di advocacy con i leader religiosi, che avevano già confermato nel 2014 che la pratica non è richiesta dal Corano, dunque confutando la sua base religiosa.

In quali zone del Puntland viene più praticata la mutilazione?

Abbiamo rilevato che non c’è una grossa differenza fra le zone rurali e le zone urbane. Questo perché è una pratica molto radicata nei codici etici della Somalia. Per spiegarmi meglio, è la stessa madre che si prende carico della questione come meccanismo di adattamento, perché una donna che non ha subito la pratica rischia l’esclusione dalla società, questo fa sì che indipendentemente dall’area geografica, mutilazioni di questo genere rimangono diffusissime.

È quindi evidente che ci siano da una parte rischi sanitari per chi si sottopone a una pratica che non ha alcuna ragione medica, e dall’altra rischi sociali di invece decide di non sottoporsi

Esattamente, c’è un forte rischio di infezione nel momento dell’operazione, ma anche successivamente, al momento del parto, ci possono essere complicazioni sia per la madre che per il bambino. In particolare la pratica viene fatta alle bambine tra i 5 e i 14 anni e ci sono alti tassi di morte nel momento dell’atto. Dal punto di vista psicologico invece questi sono traumi che durano tutta la vita e che raramente hanno uno spazio di discussione all’interno del nucleo familiare, perché rimane ancora un argomento tabù. Dal punto di vista sociale, invece, chi non subisce la pratica rischia l’esclusione. Ci sono aspettative sociali molto definitive, il che è un rischio per la donna ma anche per la famiglia perché non avere subito la pratica può precludere dal matrimonio.

Come si pone fine ad una simile pratica che sembra così radicata nella struttura sociale e culturale?

Porre fine alla pratica è un obiettivo ambizioso, che realisticamente non può essere realizzato in pochi anni. Quello che possiamo fare è settare le basi per un cambiamento a lungo termine. Dobbiamo avere un impatto sulla pratica, sull’attitudine e sulla conoscenza. Io credo che si possa lavorare sull’ampliamento e sul rafforzamento della conoscenza di questi temi, che sono ancora poco affrontati all’interno del nucleo familiare. Questo noi lo facciamo attraverso i community dialogue che hanno come target le persone giovani, aperte a formare idee su questi temi. È lavorando con le nuove generazioni che possiamo avere un impatto sul futuro. Alcuni di questi incontri sono infatti stati realizzati all’interno delle università con gli studenti di scienze sociali e discipline sanitarie. Portando avanti queste attività, e lavorando anche a stretto contatto con le istituzioni locali, speriamo di riuscire a portare un cambiamento concreto che toccherà le vite di tutte le donne e le ragazze della regione.

Aiuta le donne somale ad abbandonare ogni forma di violenza